martedì 2 giugno 2009

Futurismi vecchi e nuovi

Tommaso Giommoni

“Zang Tump Tump”, suoni bislacchi in piazza Duomo: così inizia “Futurismo 1909-2009” la mostra sull’avanguardia milanese in scena a palazzo reale fino al 6 giugno. E’ un percorso intenso, ludico a tratti, creativo di una creatività coinvolgente.

Il visitatore si trova gettato in un mondo surreale e bizzarro sin dall’ingresso nella corte del palazzo; qui enormi altoparlanti dal sapore vagamente retrò, producono una musica alienante ma coinvolgente, una musica “Futurista”.

La mostra si articola secondo un percorso cronologico che, dal prodromo figurativo arriva all’avanguardia vera e propria, quella degli albori coloniali del suo fondatore (Marinetti è nato ad Alessandria d'Egitto), fino a percorrere l‘iter dell’agguerrito gruppo.

Il contesto culturale in cui il movimento (ossia i suoi fondatori) si sviluppa è quello del caleidoscopico mondo post-impressionista. Da una parte chi ne ha ripreso le fila e, galvanizzato da vapori positivisti, ha dato vita ad un’espressione pittorica fondata sull’illusione ottica (il puntinismo); dall’altra chi, nel rifiuto della pittura come rappresentazione di un’impressione, ha cercato “foreste di simboli” nel reale, ha cercato di ritrarre il senso ultimo, mistico che la realtà custodisce (il simbolismo); ed infine chi ha concepito la pittura come vettore di ideali sociali (Pellizza Da Volpedo con il suo quarto stato).

L’inizio della mostra è enigmatico, diversivo; un antipasto figurativo in cui troviamo le avanguardie milanesi del tempo. Si va dallo scapigliato Medardo Rosso (“Noi siamo degli schizzi di luce, la materia non esiste”[1]) con le sue “morbide” sculture di cera, a Gaetano Previati con “La maternità”, divisionista, a tratti simbolista. Poi l’inizio tanto atteso.

La prima sezione è dedicata agli albori dell’avaguardia, dal manifesto, alle prime opere. Il gruppo, sorto intorno alle stravaganze del letterato Filippo Tommaso Marinetti, esalta il progresso, la velocità, ciò che, nuovo, possa spazzare via tutto quello che è stato, e l’attitudine a riproporlo (il “Passatismo” come lo definì Marinetti).

Anni 10, siamo in quella fase del Futurismo definita “Divisionismo plastico”: la realtà risulta frammentata in un vortice puntinista che, smanioso di riprodurre il movimento in quanto tale, viene sezionata in più piani e frantumata; in tale fase, fortemente influenzata dal cubismo (a là Braque ed a là Picasso), spiccano pittori quali Boccioni, vero profeta del dinamismo[2], Balla, con i suoi tentativi “tecnici” di dipingere una donna che porta a passeggio un cagnolino[3] e Severini.

La mostra prosegue con i fasti degli anni 20, l’arte “Meccanica”; l’avanguardia milanese si spinge all’esaltazione, “decadente” quanto aulica, della macchina. Tale fase, resa ancor più ambigua dalla vicinanza con il regime del duce, produce opere “spigolose”, intense, a tratti “metafisiche”[4]. Una lettura ingenua di un futuro anelato composta da ritmi meccanici ed automi.

Anni 30: l’esuberanza primigenia lascia, in parte, spazio al sognante. Siamo nella fase dell’ ”Aeropittura”in cui Dottori stupisce con i suoi paesaggi aerei, la macchina lascia spazio ad altro ma si fa strumento indispensabile, complice, per l’artista[5].

Infine la mostra presenta quelli che sono stati gli sviluppi, durante e dopo, il Futurismo. Si va dall’arte polimaterica in cui scorgiamo i sacchi di Burri, alle ultime interpretazioni del dinamismo materico.

Il Futurismo è un’avanguardia eclettica, attraversata da uno spirito forte, vorace nella sua volontà panica. Un desiderio insaziabile fino ad arrivare, talvolta, alla contraddizione.


“Abbiate fiducia nel progresso: ha sempre ragione anche quando ha torto”.


Amava dire Marinetti.