domenica 31 maggio 2009

Fact or Fiction


Vincenzo Scrutinio (con la gentile collaborazione di Alessandra Marra)

“Tali dunque si sono presentati alle mie ricerche gli antichi avvenimenti ma sono tali da rendere difficile il prestar fede a un qualunque indizio su di loro, così come viene ... così faticosa è per i più la ricerca della verità e a tal punto che i più si volgono di preferenza verso ciò che è a portata di mano”

Tucidide, La Guerra del Peloponneso (cap 20)


Quando il romanzo si confonde con la storia…

Alcuni giorni fa è uscito nelle sale cinematografiche “Angeli e Demoni”, basato sull’omonimo romanzo di Dan Brown. Dati gli argomenti trattati, il film ha scatenato la reazione di parte di alcuni sacerdoti che sono quasi arrivati a sporgere querela.

Questo, tuttavia, non è nulla rispetto al dibattito provocato dal ben più controverso “Codice da Vinci”, quando alcune tesi esposte nel romanzo vennero elevate a verità storica. Fortunatamente una parte del mondo accademico ha puntato il dito contro numerose inesattezze storiche presenti nel libro (oltre all’accusa di plagio da parte di Maichel Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, autori del libro Il Santo Graal nel 1982, in cui sono esposte molte delle tesi presentate nel Codice).

Sembra tuttavia che non fosse intenzione dell’autore sollevare un simile vespaio. Dan Brown afferma, infatti, nella prima pagina del romanzo, che la trama è frutto di fantasia, ma trovatosi sotto i riflettori non sembra abbia fatto molto per sconfessare l’uso che si stava facendo della sua opera. In un mondo così affamato di trascendenza e mistero le tesi di Brown sono state accolte come fossero manna dal cielo, nonostante le numerosissime incongruenze storiche.

Qualche svista …

Prendiamo un punto saliente del film da un punto di vista storico. Langdon va a casa del suo amico Sir Leigh Teabing, per raccogliere alcune informazioni sul Santo Graal. A questo punto lo studioso si lancia in una curiosa ricostruzione storica. Un oggetto sarebbe stato ritrovato dal braccio armato del Priorato di Sion (addirittura i Templari!) a Gerusalemme subito dopo la conquista della città da parte di un re francese. Tramite esso i templari avrebbero ricattato la Chiesa di Roma, accumulando enormi ricchezze e potere prima di essere arrestati e trucidati la notte del 14 ottobre del 1307. Direi che possiamo fermarci qui e discuterne.

In primis la città di Gerusalemme non fu conquistata da un re ma da due baroni, il conte Raimondo di Saint Gilles e Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lotaringia, che ringraziano entrambi per la promozione sul campo. In secondo luogo i Templari non esistevano ancora nel 1099, anno della conquista. A seconda della datazione usata si colloca la loro effettiva fondazione nel 1118/1119 mentre il riconoscimento ufficiale arrivò solo 9 anni dopo, in occasione del concilio di Troyes del 1128. In seguito, circa una decina di anni dopo, iniziarono ad avere numerosi benefici per l’appoggio dato ad Innocenzo II contro Anacleto II, proclamatosi anche lui papa (succedeva abbastanza spesso, non crediate …(-:) e per il loro impegno in Terrasanta (si può far riferimento alle bolle “Omne Datum Optimum”, “Milites Dei” e “Militia Christi”).

A seguito della sconfitta di Ruad e della presa del loro ultimo avamposto nel 1293 (Acri era stata nel 1291) si ritirarono in occidente dove si concentrarono sulla gestione delle loro numerosissime ricchezze e proprietà in attesa di tempi migliori. Questi tempi, però, non arrivarono mai. Nel 1307 su ordine di Filippo IV il Bello, re di Francia, vennero arrestati con varie accuse riassunte nelle varie bolle “Faciens Misericorda”.

Nonostante il papa fosse effettivamente con le mani legate (era il periodo della cattività avignonese…) si scatenò una battaglia giudiziaria che si concluse solo sette anni più tardi con lo scioglimento dell’ordine con la bolla “Vox in Excelso” (1312) e la condanna al rogo di Geoffrey de Charney e Jacques de Molay, allora Gran Maestro, con l’accusa di eretici relapsi.

Penso che Barbara Frale sia quasi svenuta alla notizia che avevano cancellato dalla storia più o meno tutta la sua produzione scientifica ( per giunta di altissimo livello…)!

Avviso ai naviganti

Come si può ben vedere gli errori non mancano … ed in più o meno cinque minuti se ne possono trovare una discreta quantità. Per tale motivo invito coloro che si apprestano a vedere il film e tutte le opere di questo genere a fare molta attenzione a prendere per buone le affermazioni che vengono fatte. La riflessione in questi casi non è un valore a sé e, se non viene affiancata da un’accurata ricerca e documentazione, porta a effetti opposti rispetto a quelli sperati. Per il resto questi romanzi restano delle belle storie ma, tranne pochi illuminati, nulla più.

giovedì 7 maggio 2009

Questo Non E' Un Caffé

Tommaso Giommoni

disegno di Omar Abdel Wahab

La realtà è come appare, la realtà è come è percepita, la realtà è come qualcuno vorrebbe che fosse. In realtà la realtà (e qui la ripetizione è d’obbligo) è un concetto troppo complesso da saggiare. Quello che possiamo notare è però una certa ironia nel reale; una virtualità che rende tutto più evanescente.

L’intero sistema sta lentamente scivolando verso derive sempre meno consistenti; e ciò che materialmente sentiamo sta diventando sempre più simile a ciò che virtualmente percepiamo. Una comunicazione smodata ed infinitamente veloce, l’oggetto che viene rimpiazzato con la sua immagine. Sono tutti esempi di un’incipiente sovrastrutturarsi di ciò che ci sta intorno.
Una realtà così sbilenca e sfibrata si avvicina parecchio a quel “mostro” descritto dal belga Magritte.

“Questa non è una pipa” tuonava l’artista quando nella tela raffigurava meticolosamente proprio quell’oggetto. Il pittore aveva intuito l’inesorabile processo e si era deciso a rappresentarlo con quel suo stile sobrio, ironico e giocoso. Nelle sue tele il rappresentato prende commiato dal rappresentante; ci troviamo spettatori spaesati di una recita illogica.

L’artista sapeva che quell’oggetto di legno era così chiamato. Sapeva tuttavia come quelle quattro lettere fossero una pura convenzione: l’uomo tenta di proteggersi da una realtà inconoscibile appiccicandovi etichette e finisce col cadere nell’inganno da lui stesso creato. E che inganno! La presa in giro è duplice: Magritte si burla di chi lo guarda, gettandolo impietosamente in uno stato di confusione; ma allo steso modo carica di autoironia le sue tele quando ci si rivolge con quel sorriso sornione. È così che l’artista conia uno stile unico e nel farlo è rivolto sovente al passato: è metafisico quando si impegna a rendere spaesato il suo pubblico, è profondamente cubista quando polverizza e defrauda della logica la realtà, è simbolista quando si fa buio e misterioso.

Se conoscere è interpretare (come in parte credo) Magritte ha sicuramente il merito di aver anticipato un processo che oggi si fa più forte che mai; noi ci sciogliamo, perdiamo consistenza mentre la nostra immagine svetta, monade si erge su di noi. E l’uomo, ormai alla deriva in quanto nemmeno più consolato dal dono della beata ignoranza, non può che accettare e trovare il solo porto franco in un placido stato di ammirazione di quel mistero semantico che ogni volta si ripresenta.”Così è, se vi pare” sembra dirci l’artista.