mercoledì 31 marzo 2010

I “Racconti” di Edgar Allan Poe – Il mondo problematico di un genio

Gianpaolo Repici

Edgar Allan Poe ha avuto una vita piuttosto breve, ma ha scritto davvero molto. La stragrande maggioranza delle sue opere, tuttavia, è perduta nei giornali del tempo: era un giornalista, talmente bravo che, nel periodo in cui scrisse per il Gentleman’s Magazine (poi ribattezzato Graham’s Magazine), ne fece schizzare vertiginosamente la tiratura da cinquecento copie iniziali a quarantamila.

Basti questo per definire lo spiccato talento di questo giovane bostoniano in campo giornalistico. Si affermò come critico, scrittore e polemista implacabile. Cercò ambiziosamente il successo, e dopo un po’ l’ottenne; ma la sua vita privata fu scossa e tormentata da drammi e instabilità di ogni tipo. La morte di entrambi i genitori, il difficile rapporto col tutore John Allan, le difficoltà economiche, la mente eccezionalmente sensibile e fragile, la malattia incurabile della giovane moglie, sua cugina Virginia; tutto questo lo portò all’uso sistematico di droghe e alcol, fino alla morte per delirium tremens, avvenuta a quarant’anni in circostanze piuttosto misteriose e mai ben chiarite.

Poe fu così un poeta maudit ante litteram, che suscitò, col suo stile di vita dissennato e bohèmien, l’ammirazione di coloro che più di consueto vengono definiti poeti maledetti, Baudelaire per primo. Quest’ultimo, in particolare, lavorò per più di dieci anni sui testi originali del Poe, traducendoli in francese e commentandoli. È a lui, a tutti gli effetti, che si deve l’ingresso di Edgar Allan Poe nella cultura europea.

L’analisi psicologica dell’autore ha spesso portato a ravvisare in tutto ciò che ha scritto gli effetti visionari del laudano e dell’alcol. Negli ultimi anni, però, la critica ha cercato di staccarsi da questi clichés, ritrovando negli scritti del Poe l’originalità di un autore di talento.

L’opera di Poe, fatti salvi gli articoli di giornale, si articola su due filoni principali, potremmo dire tre: quello poetico, in cui tuttavia non brillò quanto avrebbe desiderato, quello romanzesco con l’unico caso di Storia di Arthur Gordon Pym e quello dei racconti, che lo consegnarono alla storia, facendone uno dei pilastri della letteratura d’oltreoceano. A questi tre filoni si aggiunge una serie di trattati.

Gabriele Baldini individua due principali aspetti nel modo di scrivere di Poe: un primo aspetto è quello puramente speculativo, un altro è quello del dramma poesco, di cui fa parte la maggior parte dei racconti.

Con il filone speculativo Poe si scopre precursore del genere poliziesco, prima di Simenon, Chesterton, Conan Doyle. I delitti della rue Morgue, Il mistero di Marie Rogêt e, soprattutto, La lettera rubata, rappresentano dei capolavori induttivi e dal forte impatto teatrale. Personalmente, trovo pazzesco il caso de Il mistero di Marie Rogêt.

L’autore era rimasto colpito da un episodio di cronaca nera che aveva scandalizzato il Paese. Interessatosi alle indagini “a distanza” (si trovava infatti in tutt’altra parte degli Stati Uniti), lesse tutti i giornali, selezionandone le notizie e ritagliandone trafiletti, senza trascurare di prestare attenzione anche agli episodi di contorno, agli altri eventi contemporanei. Scrisse quindi un racconto speculativo, in cui, seguendo il solo filo logico e gli indizi messi insieme, svelò di fatto la dinamica di quanto accaduto. Le sue ipotesi si rivelarono quasi completamente corrispondenti al vero, tanto che due testimoni, a distanza di tempo, confermarono per filo e per segno quanto da lui congetturato.

Direi che questi racconti, quelli “polizieschi” intendo, sono una bella lettura: avvincenti, di lunghezza non troppo contenuta, sono lontani dall’inquietudine di un altro filone dei racconti del Poe, cioè quelli che costituiscono la raccolta “Racconti del terrore”. Gli scritti di quest’ultimo, nutrito gruppo, sono generalmente più brevi, e intrisi di un’atmosfera macabra, noir, psicologicamente devastata. Il lettore non può affrontarli in maniera rilassata, e leggerli tutti uno dopo l’altro può risultare perfino greve e opprimente. Al contempo, però, essi raggiungono vette davvero uniche: Il cuore rivelatore, Il pozzo e il pendolo, L’uomo della folla, William Wilson, Ligeia ne sono solo alcuni esempi.

Quelli di Poe non sono personaggi, sono figure che emanano dalla necessità dell’autore di mettere in scena un certo dramma, il dramma della vita portato all’esasperazione. Manca del tutto la loro analisi psicologica. Essi si muovono su un palco straordinario, concreto come pochi: l’ambiente di contorno è il protagonista, le figure sono solo incarnazioni contingenti di ciò che l’autore vuole comunicare. Presi di per sè, quei personaggi sono totalmente incoerenti, non potrebbero mai avere vita propria a prescindere dalle particolari condizioni in cui li cala il Poe. Numerose le figure di donna debole e malata, destinata a morire per poi tornare in qualche modo sovrannaturale a turbare la vita del narratore (Morella, Ligeia, Berenice, Il crollo della casa Usher, Eleonora). Numerose, altresì, le azioni compiute senza un’apparente ragione da parte di quest’ultimo: « E’ impossibile stabilire in che modo quell’idea m’attraversò il cervello la prima volta. Io so solo che, una volta concepita, essa mi ossessionò giorno e notte. […] Immagino che fosse il suo occhio! Sì, era quello senz’altro! […] E a poco a poco, lentamente, io m’ebbi fitto in capo quel pensiero di togliergli la vita e di sbarazzarmi così, per sempre, di quel suo terribile occhio.» (Il cuore rivelatore).

La ragione vera di azioni come quella cui si fa riferimento va forse cercata in certe profondità dell’animo del tutto insondabili, e soltanto raffigurabili per mezzo del dramma che il Poe mette in scena; intuibili, per così dire, dal lettore, ma mai chiaramente esplicitate.

Una scrittura, quella di Edgar Allan Poe, da cui traspaiono una profonda cultura e una mente poliedrica. Per i nostri standard, in quanto ottocentesca, potrebbe apparire a taluni un po’ forzata, ampollosa se vogliamo, arzigogolata in certi punti. Negative, a mio avviso, le citazioni non tradotte da lingue straniere; il lettore non è tenuto a conoscere il greco e il tedesco per poter comprendere il senso di un racconto. D’altro canto ciò che si guadagna è una ricchezza lessicale che spinge addirittura a cercare il significato di alcune parole sul dizionario (segno, secondo me, assai positivo in un libro); un plauso va quindi a chi si è occupato di tradurre il testo originale (nell’edizione in mio possesso, Gabriele Baldini e Luciana Pozzi).

E’ bello scoprire che l’italiano possiede un’infinità di gole e anfratti inesplorati dai più. La nostra lingua è in grado di comunicare molte sfumature che di norma si preferisce nascondere, saturando i colori pur di raggiungere una semplicità forse eccessiva. Ciò che lascia un tantino sconcertati è che, per avventurarsi in questi anfratti, il lettore debba cercare nella letteratura di due secoli fa, anziché in quella contemporanea.

mercoledì 3 marzo 2010

Il Broker: John Grisham e il thriller “italiano”

Gianpaolo Repici

Quando ci si propone di effettuare una rapida analisi di uno dei libri di narrativa “leggera” più noti degli anni Duemila, scritto per giunta da uno degli autori più noti degli ultimi decenni, che la rivista Publishers Weekly ha dichiarato “lo scrittore maggiormente venduto degli anni Novanta”, credo che la prima domanda cui occorre rispondere sia: “Il successo del libro/autore è davvero meritato?”.

Ho letto “Il Broker” di John Grisham senza che conoscessi alcun’altra opera dell’autore; sapevo che i suoi libri vengono classificati come “gialli giudiziari”, e poco altro.

Il Broker non è certo un giallo giudiziario; credo sia più propriamente un thriller, ma a mio avviso esula dalla connotazione classica di questo genere.

La trama, detta per sommi capi, è questa: un potentissimo avvocato lobbista di Washington viene condannato a vent’anni di carcere per motivi di spionaggio. Dopo soli sei anni gli è concessa la grazia presidenziale, esce di prigione e viene condotto in Italia, dove assume una nuova identità e cerca di rifarsi una vita, mentre vecchi nemici si mettono sulle sue tracce per fargliela pagare.

Non dirò altro per non prevaricare la curiosità dei lettori; tuttavia, da queste poche righe si capisce che il genere del thriller appare quello più idoneo per classificare il romanzo. Spionaggio, nemici in movimento, aggiungiamoci CIA e servizi segreti di qualsivoglia nazione, ed ecco la ricetta perfetta per un thriller.

Il colpo di genio di Grisham è stato quello di ambientare gran parte della vicenda nel nostro Belpaese. Mi ha insegnato molto di più lui sulle consuetudini e le caratteristiche peculiari di noi Italiani rispetto a innumerevoli passeggiate per le vie del centro.

Questo popolo, che Grisham studia con gli occhi dello straniero, da un canto mette in luce alcuni aspetti riconducibili a famosi luoghi comuni, dall’altro, tuttavia, manifesta abitudini totalmente inattese. E quando ci si immobilizza, leggendo, e si riflette per qualche secondo, e si pensa tra sé: ‘Caspita, ha ragione, è proprio così! Noi siamo così!’, beh, allora è proprio il caso di dire che l’autore ha fatto centro.

A onor del vero, ci sono anche casi opposti (qualcuno di voi ha mai sentito dire che in Italia è maleducato ordinare un cappuccino dopo le dieci e mezzo di mattina?), che tuttavia quasi rinfrancano l’animo: in fin dei conti, se non commettesse alcun errore, Grisham sembrerebbe più “italiano” di molti di noi…


Ecco allora che la trama, per quanto ricca di spunti che, se maneggiati da altri autori, porterebbero suspense e fretta di leggere, si snoda con calma, come un placido fiume dall’ampio letto, qua e là insinuandosi in una folkloristica descrizione delle vie bolognesi, altrove in un richiamo storico intriso di sarcasmo. Spesso lo scorrere del tempo sembra fermarsi: i personaggi si siedono in un ristorante per fare pranzo, senza fretta, e il protagonista si stupisce di quante ore gli Italiani siano disposti a dedicare al cibo e alla buona cucina; per lui, che viene dalla realtà dei fast-food, tutto ciò sembra assurdo.

Con una cornice assolutamente nostrana, e carica di una magistrale ironia persino nei momenti più delicati, la trama tipica del thriller prende infine il sopravvento: il tempo comincia a stringere e i nemici si fanno sempre più vicini, in un crescendo finale che accelera i battiti del cuore e stuzzica la curiosità, fino alla conclusione. Il lettore potrà godersi ancora una nota dell’autore, straordinariamente autoironica: “E’ tutta fantasia, ragazzi. Ne so ben poco di spie, di sorveglianza elettronica […]. E se qualcosa in questo romanzo si avvicina alla realtà deve essersi probabilmente trattato di un errore.”

E ancora, un tributo al nostro Paese (che a quanto pare è più amato dagli stranieri che da coloro che vi abitano): “Bologna, comunque, è tutt’altro che fantasia. Mi sono concesso il lusso, dovendo scegliere un posto dove nascondere il signor Backman, di lanciare una freccetta su una carta geografica. Un paese valeva l’altro, più o meno; ma io adoro l’Italia e tutto ciò che è italiano, e devo quindi confessarvi che quando ho lanciato quella freccetta non avevo gli occhi bendati.”
Che dire? Grazie, Grisham. Ora non vedo l’ora di acquistare un altro tuo libro, e di andare a visitare Bologna.