mercoledì 21 ottobre 2009

Diable diable d'homme

di Tommaso Giommoni

Un palazzo aspro, spigoloso ma dolce al contempo è sede di una mostra molto particolare, siamo a Ferrara e va in scena Giovanni Boldini.
Il Boldini è un pittore bizzarro , mondano di una mondanità evanescente, acuto di una profondità esemplare. Un lezioso cantore di virtù tutte borghesi che riesce a ritrarre con levità mai disattenta l’indole dei commedianti di quel mondo.
Giovanni Boldini (1842-1931) nasce in una Ferrara scossa dalle turbolenze della storia, tornata dopo la parentesi napoleonica sotto il dominio dei cardinali, e ormai in vista di entrare nel regno che di lì a poco sorgerà in Italia. Trasferitosi appena ventenne a Firenze si iscrive all’accademia delle belle arti; qui inizia a frequentare quel crocchio di “impressionisti” toscani noti come i macchiaioli. Il loro è un movimento intenso, di ribellione profonda verso l’equilibrio neoclassico ma anche verso la trascendenza, lugubre talvolta, di stampo romantico. Il macchiaiolo vuole innovare la pittura in senso antiaccademico, secondo quel gusto verista che di lì a poco si scorgerà nelle novelle del Verga.

La fase fiorentina incide molto sul pittore, è facile scorgere nei suoi dipinti cieli fatti apposta per un quadro del Fattori, tuttavia la sua“patria artistica” è senza ombra di dubbio Parigi.Quando il Boldini vi si trasferisce (siamo nel 1871) la Fancia ha appena inaugurato la sua terza repubblica e la capitale è l’epicentro di una rivoluzione la cui colonna portante è la nascita dell’impressionismo. I suoi teatri, i suoi caffè , i suoi salotti sono i nuovi luoghi di culto di una religione laica e mondana; ed il ferrarese, lui che è un vero e proprio animale da salotto, viene accolto con onore.

Boldini diviene ben presto il testimone di quel luccicate mondo opulento, l’attore irrinunciabile dal quale farsi ritrarre sarà considerato un obbligo d’appartenenza. Amico di Proust e di Degas, che non esitò a definirlo “Diable ,diable d’homme”, il Boldini diventa a pieno titolo pittore ufficiale del “bel mondo”.

La consacrazione del pittore emiliano è dovuta in primis al suo gusto squisito. Il tratto dell’artista si fa infatti sempre più raffinato fino a costituire una felice fusione di quelli che sono i sapori propri dell’impressionismo ed un delicato accenno di realismo. È una pittura “formale” ma sbarazzina, ammiccante a tratti, dalla quale non è difficile scorgere accenni di malizia.

Il Boldini è un pittore moderno, squisitamente decadente; un osservatore acuto quanto schiavo di un mondo dominato dall’apparire.

È nel natio borgo ferrarese che si celebra, con questa mostra, Giovanni Boldini. Un pittore originale ma anche un inguaribile esteta, “L’artista della decadenza estrema” come venne definito.





domenica 11 ottobre 2009

Anna Karènina, Il Libro Delle Speranze Infrante

Gianpaolo Repici

Capita talvolta di voler interrompere certe consuetudini, perché alla lunga danno noia. La lettura non può certamente essere classificata come una di queste, ma mi sono trovato a pensare che leggere sempre romanzi attuali, di fresca pubblicazione, fosse un passo falso nella mia crescita culturale. Finché sono stato immerso nel ciclo scolastico, sono stato “ obbligato” a leggere alcuni grandi classici della letteratura ogni anno; perché non continuare? – mi son detto.

Così ho riaperto le ante della libreria in cui tengo alcuni di questi libri, e mi sono imbattuto in un nome non da poco: Lev Tolstoij. La Russia ha sempre esercitato sulla mia fantasia un’influenza notevole, sia perché la vedo come paese lontano e fuori dalla mia normale concezione di Stato (e per le dimensioni, e per la morfologia del territorio), sia perché la lontananza si ammanta di elementi leggendari che ne fanno nel mio immaginario un colosso quasi mitico.

Dirò la verità: mi sono costretto a leggere i grandi classici senza aspettarmi molto. Ritengo tuttora che spesso e volentieri alcune opere che hanno goduto di enorme successo debbano la loro importanza a due fattori: il numero ridotto di autori degni di nota nell’epoca in cui sono state scritte, e l’influenza che l’autore aveva in società. Sotto questo punto di vista, non mi sbagliavo: ho scoperto che Tolstoij, individuo di cui non conoscevo assolutamente nulla (la scuola italiana di certo non ne pubblicizza le opere), era effettivamente un proprietario terriero di non irrisoria importanza. Bingo! – ho esultato - Lo sapevo!

Ed è venuto il momento di intraprendere la lettura. A poco a poco, i miei preconcetti sono crollati indistintamente, di fronte ad uno dei capolavori più grandi che mi sia capitato di leggere. Lo ammetto, non possiedo una cultura stratosferica al riguardo, ma so anche di non essere l’ultimo arrivato. La lettura di “Anna Karenina” mi ha spalancato orizzonti pressoché infiniti davanti agli occhi. Ho impiegato molto tempo per esaurirla – in primis, stiamo parlando di un tomo diviso per necessità editoriale in due libri nell’edizione in mio possesso; in secundo, gli spazi in cui posso dedicarmi alla lettura non sono poi così tanti nell’arco della giornata – ma ne è valsa davvero la pena.

Innanzitutto, ho dovuto cedere di fronte all’inequivocabile bellezza puramente stilistica del testo. È un susseguirsi di parole e immagini che non lasciano tregua, scorrono semplicemente le une dopo le altre come un fiume; e mi verrebbe da dire un fiume placido e maestoso, più che uno in piena, mai irruento e roboante, ma sempre grandemente pacato. Mi ha ricordato il lento e inesorabile scorrere del Danubio quando l’ho visto a Bratislava; e sebbene sia consapevole che molto fa l’opera del traduttore, e che ci siano casi di traduzioni italiane migliori delle originali (vedansi le poesie tradotte da Quasimodo), sono altrettanto convinto che questi casi siano quanto mai rari.

Uno dei pregiudizi che sono stato costretto a smantellare rapidamente è poi stato quello relativo all’interesse che avrebbe destato in me la lettura: consapevole di andare a leggere una storia di amori e tradimenti, la sentivo lontana dai miei gusti, noiosa e, in fin dei conti, frivola.

Mi sono trovato per contro immerso in una girandola pazzesca (di rado ne ho conosciute di così complicate) di personaggi ed eventi, dove il legame sentimentale tra Anna Karenina, il marito e l’amante di lei è sì parte fondamentale, ma non unico motore del testo. Innumerevoli i personaggi tratteggiati da Tolstoij, dai nobili ai ricchi borghesi, dagli artisti ai preti ortodossi, dai contadini alle donne di strada, dai comunisti ai conservatori, dai pensatori e filosofi ai servitori: nelle righe vergate dalla sua mano prende forma la Russia del suo tempo, una Russia zarista al crepuscolo della sua grandezza, dove già emergono distintamente problemi (distribuzione delle terre, ascesa del socialismo e delle sue correnti estremiste) che avrebbero messo in ginocchio la nazione, per rinnovarla completamente. Leggendo “Anna Karenina”, la Russia mi è sembrata la nostra Europa, non fosse che per il contesto e le situazioni economico-sociali, del tutto differenti, come afferma lo stesso Tolstoij, da quelle europee. A questo proposito, l’autore afferma, per bocca di uno dei personaggi di gran lunga più importanti del libro, Konstantìn Dmìtric Lèvin, che l’errore che si fa in Russia è di voler ragionare secondo i criteri europei, obbligando il popolo e la cultura a seguire modalità di sviluppo improponibili per il Paese; occorre trovare una soluzione russa ai problemi, non europea. Forse, in questa breve frase, ingenua se volete, stava la soluzione di molti problemi che avrebbero dilaniato la Russia da lì a non molto. “Anna Karenina” è scritto tra il 1875 e il 1876, e ciò che ne emana è la speranza di riforme sensate e illuminate che portino il Paese a livello europeo, ma non nel modo europeo. Da questo punto di vista, fa effetto un lungo dialogo tra Lèvin e un proprietario terriero conservatore. Lèvin è a mio avviso personaggio fortemente autobiografico, e sono convinto che ciò che afferma sia quasi sempre ciò che pensa l’autore; ma sebbene Lèvin sia un proprietario terriero progressista, a suo modo, e il suo interlocutore un ultraconservatore, emerge la visione comune che, in base alle leggi che abolirono la servitù della gleba senza però tener conto delle enormi conseguenze che ciò avrebbe comportato, tutte le aziende agricole russe siano in perdita, senza conoscere alcun modo per tirarsi fuori dal pantano. Esiste un’unica situazione che presenta conti in attivo, nel libro, ed è quella di un’azienda a conduzione familiare. Insomma, emerge con chiarezza una situazione che sta precipitando, e Tolstoij auspica sia per sé, sia per chi lavora le sue terre, leggi nuove e prettamente russe, che rilancino il Paese. Noi tutti sappiamo come andò in realtà; e quasi provavo pena per quelle speranze, così vive in “Anna Karenina”, e così definitivamente infrante di lì a poco più di quarant’anni.

Non mi soffermerò a lungo sulla vicenda di per sé, perché è mia opinione che la grandezza di un testo non derivi dalla trama, che magari molti dei lettori già conoscono attraverso la lettura diretta dell’opera o la visione della pièce teatrale o della versione cinematografica ad essa relative. Credo che la grandezza di un libro derivi dalle sensazioni che suscita in chi legge; e in questo Tolstoij è maestro. Sebbene la trama non sia “avvincente” in senso stretto (ho letto molti romanzi attuali ben più avvincenti, dalla cui lettura non riuscivo a schiodarmi), non si può non riconoscere che è vasta e perfettamente delineata. Nell’insieme, risulta molto gradevole e tocca una quantità di argomenti ancora attuali, che fanno riflettere il lettore.

Tolstoij doveva essere un uomo incredibilmente colto, a giudicare dalle innumerevoli questioni che si dimostra in grado di analizzare nel corso della vicenda: questioni filosofiche, artistiche, economiche e religiose, ma anche realtà quotidiane, dominate dal buon senso, dall’amore per chi ci sta attorno e dalle contraddizioni della società in cui tutti noi ci muoviamo.

Doveva essere un osservatore eccezionale: mi ha colpito in maniera fortissima il modo in cui riesce a descrivere scene di vita femminile e a gestire lunghi dialoghi tra donne, come se fosse una donna egli stesso, provasse gli stessi sentimenti, e vedesse il mondo nello stesso modo. E, si sa, il modo di percepire le cose e vivere proprio delle donne non è quello degli uomini. Eppure, altrettanto perfetti erano i dialoghi tra uomini, le incomprensioni nei rapporti, dovute a qualche parola di troppo o a qualcuna non detta nel momento giusto. Vedere come l’autore si facesse entità esterna sia agli uomini che alle donne, per poter osservare entrambi col giusto distacco, e al contempo si insinuasse con forza nella loro vita, per poterli cogliere nella loro realtà più intima, mi ha fatto pensare che Tolstoij è davvero uno Scrittore, con l’iniziale maiuscola. Perché non c’è grandezza maggiore, per chi scrive, di riuscire ad abbandonare i propri giudizi e il proprio modo di vedere le cose, per incarnarne altri, magari diversi e completamente in conflitto con i primi, e sostenerli con il medesimo fervore.

Non si può poi parlare di “Anna Karenina” senza toccare l’ambito amoroso. Direi che dal libro emergono diversi modi di amare le altre persone, e soprattutto nella coppia. Quello di Anna e quello di Lèvin sono messi quasi a confronto, ed evolvono in parallelo, l’uno perdente e insensato, l’altro semplice e mite, e per questo vincente. I due personaggi non incrociano le proprie vie se non in rare occasioni, perciò si può dire che la trama ha in loro i due fuochi dell’ellisse, con loro evolve e intorno a loro si snoda. Ma per comprendere meglio le innumerevoli sfaccettature dell’amore descritto da Tolstoij si può soltanto ricorrere alla lettura diretta dell’opera.

Concludo evidenziando un aspetto a mio avviso molto importante per l’autore, e cioè quello religioso. Se già conoscevo la vicenda come una serie di situazioni amorose, non ero assolutamente preparato a trovarvi una lunga, dettagliata e umile analisi dell’aspetto religioso. Basti pensare che, paradossalmente e in barba al titolo, la vicenda di Anna Karenina e del suo amore dilaniato si conclude con la parte settima dell’opera; l’ottava ed ultima parte è interamente dedicata a Konstantìn Lèvin e al suo cammino spirituale, che lo porterà infine ad approdare alla serenità d’animo a seguito di un lungo periodo di turbamento interiore. Il protagonista troverà la risposta ai propri quesiti smettendo di guardare alle cose in maniera complicata, senza più seguire il corso di elucubrazioni filosofiche che si rincorrono la coda e non lo soddisfano mai del tutto; solo facendo spazio all’umiltà e guardando alla semplicità della vita contadina giungerà a placare il proprio spirito assetato. Segno che, forse, nell’affrontare molti problemi lo sguardo è così offuscato dalle strutture del nostro modo di pensare che ci rende impossibile discernere ciò che si delinea all’orizzonte, impedendoci di interpretarlo nel modo corretto; e mi sembra che tutti gli uomini, di ogni luogo e di ogni tempo, non possano sentirsi del tutto immuni alla critica che Tolstoij vuole muovere a tutti noi, e al richiamo all’umiltà che, di fronte a tante speranze infrante nel corso della trama, costituisce il grido finale di vittoria di Konstantìn Dmìtric Lèvin.