venerdì 27 novembre 2009

La Donna Baudelairiana: Ossimorica Incarnazione Di Un Raggio Lunare

Jenny Luchini

“Mentre dormivi nella tua culla, la Luna, che è il capriccio in persona, guardò alla finestra e disse- Questa bambina mi piace-”. Inizia così il poemetto in prosa di Charles Baudelaire intitolato “I benefici della luna” ("Les bienfaits de la Lune”), contenuto nella raccolta “Spleen di Parigi”(composta tra 1855-1864) e non di certo una delle opere più conosciute del poeta maledetto.

L’ incipit rappresenta una sorta di battesimo spirituale,un effluvio sensualmente oscuro che la luna infonde nella donna, ancora bambina, legandola eternamente a lei. Le dona l’incanto esteriore, occhi verdi, carnagione d’opale,ma non solo questo;come una dolce tiranna impone sulla donna la sua eterna influenza, i suoi stessi amori e capricci. La donna, come la Luna stessa, sarà quindi legata all’acqua, tranquilla o multiforme (antico simbolo di fertilità), alle nuvole, alla notte e al silenzio, ai gatti flessuosi e languidi. Ma soprattutto sarà attratta dal luogo in cui non è, e dall’amante che non conosce. Sarà corteggiata da coloro che amano la Luna stessa,da quegli uomini così simili al poeta, cioè a quel nemico del sonno che in una altro bellissimo sonetto, “tristezze della luna” (contenuto in “Spleen e ideale”) sarà lì, pronto a raccogliere le lacrime dell’astro, e a conservarle come un talismano, per poi incastonarle tra i versi di una poesia.

Infatti in quest’ultimo sonetto, seppur precedente al poemetto, l’identificazione Luna- Donna è ancora più forte, supportata da un voluto gioco di ambiguità. La donna non è più una bambina, o meglio, è la luna che, in una serata malinconica, diventa donna,e stesa mollemente sui suoi cuscini, si accarezza distrattamente i seni nell’estatica e narcisistica contemplazione di sé stessa.
Così come la luna ha due volti, anche la visione di Baudelaire riguardo al mondo femminile è ambigua. C’è il lato chiaro, luminoso, permeato direttamente di fascino e luce angelica, che porta a identificare la donna con la realizzazione di un riscatto o con la salvezza divina. La donna, come la luna, arrotonda il suo ventre e contribuisce al ciclo della vita, e con i suoi ritmi regolari fa da eco all’astro celeste, che per antonomasia scandisce i battiti del tempo.

Ma tutto sembra essere smentito, e prevale il volto oscuro del femminino quando ad esempio Baudelaire descrive la donna come riflesso della temibile divinità, come intossicante madrina portatrice di malefici, prostituta o anche forma seducente del diavolo.

Il poeta maledetto lungo tutta la sua opera ci presenta quindi la donna come una “maledetta e cara bambina viziata”, una figura di luci ed ombre, dal fascino dolce e malvagio, un degno granello di polline dei “Fiori del male”, ossimoro costante e sempre in equilibrio tra poli opposti, tanto da essere sempre un soggetto estremamente attraente da analizzare e interpretare.

martedì 17 novembre 2009

Leggere E' Un'Arte E Una Filosofia!

Gianpaolo Repici

Pochi giorni fa chiacchieravo con alcuni membri di questo giornale di come ciascuno intenda la lettura, con quale stato d’animo essa vada affrontata e in che modo una persona debba approcciarsi ai libri che vuole leggere. La chiacchierata, ricca di spunti interessanti, mi ha portato ad estendere il dibattito a tutti coloro che leggono o scrivono su Il Caffè.

“Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo del vivere” scriveva Daniel Pennac. Mi trovo in perfetto accordo. Una delle cose che ho patito di più dopo la transizione liceo-università è stata l’enorme difficoltà di trovare del tempo libero per leggere; sentivo che mancava qualcosa, che in qualche modo mi stavo inaridendo interiormente. Finché non mi sono imposto di tornare a leggere con costanza, ricavandomi almeno qualche minuto ogni giorno. Ma veniamo a noi: il motivo del “conflitto” verbale coi miei colleghi de Il Caffè è riconducibile al modo in cui si legge, alla filosofia che ci sta dietro e ai criteri con cui si scelgono i libri.

Ho una lunga coda di libri da leggere, e ad ogni testo di narrativa contemporanea alterno un classico o un saggio. Mi sono imposto di non decidere in base all’istinto cosa leggere: ho impilato tutti i libri in coda e li ho rinchiusi in uno zaino, in modo tale che in cima alla pila ci sia quello che, cronologicamente, è entrato in mio possesso per primo (per chi s’intende di logistica o informatica, è una coda FIFO bella e buona!). Quando termino la lettura di un testo, mi limito ad aprire lo zaino e pescare il libro successivo. Non scelgo cosa leggere, non valuto quale testo mi sembri più interessante in quel momento, tra quelli a mia disposizione. I miei colleghi sostenevano invece che ognuno debba leggere ciò che più gli aggrada: posto di fronte a tutte le alternative, deve poter scegliere quella più allettante per lui, nello stato d’animo in cui è. La trovo un’opinione molto “romantica”, istintiva, e in questi termini non nascondo alcun giudizio negativo. Ma io sono anche uno scrittore, e cerco d’immedesimarmi in chi scrive: ritengo che a chiunque debba essere data la possibilità di dire ciò che crede, e di essere ascoltato. Quello che Voltaire disse, e che è stato citato di recente su queste pagine: “Non condivido quello che dici, ma farò di tutto affinché tu possa dirlo”, io lo applico alla lettura. Posso guardare all’opera di uno scrittore storcendo il naso, mosso dai preconcetti, ma voglio dare a tutti almeno una possibilità. Sentire ciò che vogliono raccontare. Capire perché abbiano speso mesi o anni della loro vita per realizzare il loro libro: elaborarlo, scriverlo, correggerlo, stamparlo. Sudore e fatica: anche solo questi rendono la loro opera degna di essere, se non apprezzata, esaminata.

Come posso dare a tutti questa possibilità, se mi limito a scegliere i libri che più m’interessano? Come posso essere imparziale, se decido in base ai miei gusti? E qui intendo fare un passo in più: sono convinto che, se mi si lascia carta bianca in fatto di scelta dei libri, io tenderò a procurarmi quelli che più sicuramente incontreranno il mio gradimento. Ma questo non significa altro, se non che quei libri in qualche modo rispecchieranno il mio modo di essere. In altre parole, io come lettore “crescerei” vedendo intorno a me solo cose simili a quelle che penso io. E trovo che questo sia sbagliato. L’esperienza della lettura, oltre che un intrattenimento, dev’essere innanzitutto formante. È uno dei più potenti mezzi conoscitivi di cui l’uomo dispone, e come tale va usato. Ridurre la lettura a semplice passatempo è a mio avviso sbagliato, e svilisce l’opera di chi, scrivendo, ha voluto comunicare al mondo qualcosa. Aprirsi a libri che d’istinto non si leggerebbe, ad autori che già si sa essere allineati diversamente da sé, a stili di scrittura lontani da quelli prediletti, tutto ciò può essere faticoso. Ti costringe a metterti in dubbio, a confrontare le tue opinioni e i tuoi gusti con altri differenti, forse conflittuali. Questo appare tanto più palese nel caso dei saggi o della narrativa “impegnata”, ma anche la narrativa “leggera” se ne fa portavoce, a suo modo.

Non affermo di dover leggere solo cose lontane dai propri gusti, perché si perderebbe quel sapore piacevole che la lettura di un’opera gradita porta sulle labbra. Leggere non dev’essere un obbligo o un peso. Se ho sperimentato che un autore proprio non mi piace, non comprerò una seconda volta un suo libro, e magari “tirerò il fiato” tornando da uno dei miei scrittori preferiti; ma gli ho dato una possibilità. Siamo umani, abbiamo delle opinioni, prediligiamo certi stili ad altri; ma è corretto, di tanto in tanto, se si riesce anche frequentemente, fare capolino al di fuori della nostra sfera privata, solida e protettiva. Guardare oltre, effettuare un’incursione nella sfera di qualcun altro. E chissà che l’esperienza non risulti gratificante e, da due che erano, si formi un’unica grande sfera, splendente e di modello per le altre.

Sarei felice di dibattere con voi queste cose. La mia opinione può essere salda in me, ma mai perfetta; e ascoltare le motivazioni altrui contribuisce senz’altro a perfezionarla.

mercoledì 21 ottobre 2009

Diable diable d'homme

di Tommaso Giommoni

Un palazzo aspro, spigoloso ma dolce al contempo è sede di una mostra molto particolare, siamo a Ferrara e va in scena Giovanni Boldini.
Il Boldini è un pittore bizzarro , mondano di una mondanità evanescente, acuto di una profondità esemplare. Un lezioso cantore di virtù tutte borghesi che riesce a ritrarre con levità mai disattenta l’indole dei commedianti di quel mondo.
Giovanni Boldini (1842-1931) nasce in una Ferrara scossa dalle turbolenze della storia, tornata dopo la parentesi napoleonica sotto il dominio dei cardinali, e ormai in vista di entrare nel regno che di lì a poco sorgerà in Italia. Trasferitosi appena ventenne a Firenze si iscrive all’accademia delle belle arti; qui inizia a frequentare quel crocchio di “impressionisti” toscani noti come i macchiaioli. Il loro è un movimento intenso, di ribellione profonda verso l’equilibrio neoclassico ma anche verso la trascendenza, lugubre talvolta, di stampo romantico. Il macchiaiolo vuole innovare la pittura in senso antiaccademico, secondo quel gusto verista che di lì a poco si scorgerà nelle novelle del Verga.

La fase fiorentina incide molto sul pittore, è facile scorgere nei suoi dipinti cieli fatti apposta per un quadro del Fattori, tuttavia la sua“patria artistica” è senza ombra di dubbio Parigi.Quando il Boldini vi si trasferisce (siamo nel 1871) la Fancia ha appena inaugurato la sua terza repubblica e la capitale è l’epicentro di una rivoluzione la cui colonna portante è la nascita dell’impressionismo. I suoi teatri, i suoi caffè , i suoi salotti sono i nuovi luoghi di culto di una religione laica e mondana; ed il ferrarese, lui che è un vero e proprio animale da salotto, viene accolto con onore.

Boldini diviene ben presto il testimone di quel luccicate mondo opulento, l’attore irrinunciabile dal quale farsi ritrarre sarà considerato un obbligo d’appartenenza. Amico di Proust e di Degas, che non esitò a definirlo “Diable ,diable d’homme”, il Boldini diventa a pieno titolo pittore ufficiale del “bel mondo”.

La consacrazione del pittore emiliano è dovuta in primis al suo gusto squisito. Il tratto dell’artista si fa infatti sempre più raffinato fino a costituire una felice fusione di quelli che sono i sapori propri dell’impressionismo ed un delicato accenno di realismo. È una pittura “formale” ma sbarazzina, ammiccante a tratti, dalla quale non è difficile scorgere accenni di malizia.

Il Boldini è un pittore moderno, squisitamente decadente; un osservatore acuto quanto schiavo di un mondo dominato dall’apparire.

È nel natio borgo ferrarese che si celebra, con questa mostra, Giovanni Boldini. Un pittore originale ma anche un inguaribile esteta, “L’artista della decadenza estrema” come venne definito.





domenica 11 ottobre 2009

Anna Karènina, Il Libro Delle Speranze Infrante

Gianpaolo Repici

Capita talvolta di voler interrompere certe consuetudini, perché alla lunga danno noia. La lettura non può certamente essere classificata come una di queste, ma mi sono trovato a pensare che leggere sempre romanzi attuali, di fresca pubblicazione, fosse un passo falso nella mia crescita culturale. Finché sono stato immerso nel ciclo scolastico, sono stato “ obbligato” a leggere alcuni grandi classici della letteratura ogni anno; perché non continuare? – mi son detto.

Così ho riaperto le ante della libreria in cui tengo alcuni di questi libri, e mi sono imbattuto in un nome non da poco: Lev Tolstoij. La Russia ha sempre esercitato sulla mia fantasia un’influenza notevole, sia perché la vedo come paese lontano e fuori dalla mia normale concezione di Stato (e per le dimensioni, e per la morfologia del territorio), sia perché la lontananza si ammanta di elementi leggendari che ne fanno nel mio immaginario un colosso quasi mitico.

Dirò la verità: mi sono costretto a leggere i grandi classici senza aspettarmi molto. Ritengo tuttora che spesso e volentieri alcune opere che hanno goduto di enorme successo debbano la loro importanza a due fattori: il numero ridotto di autori degni di nota nell’epoca in cui sono state scritte, e l’influenza che l’autore aveva in società. Sotto questo punto di vista, non mi sbagliavo: ho scoperto che Tolstoij, individuo di cui non conoscevo assolutamente nulla (la scuola italiana di certo non ne pubblicizza le opere), era effettivamente un proprietario terriero di non irrisoria importanza. Bingo! – ho esultato - Lo sapevo!

Ed è venuto il momento di intraprendere la lettura. A poco a poco, i miei preconcetti sono crollati indistintamente, di fronte ad uno dei capolavori più grandi che mi sia capitato di leggere. Lo ammetto, non possiedo una cultura stratosferica al riguardo, ma so anche di non essere l’ultimo arrivato. La lettura di “Anna Karenina” mi ha spalancato orizzonti pressoché infiniti davanti agli occhi. Ho impiegato molto tempo per esaurirla – in primis, stiamo parlando di un tomo diviso per necessità editoriale in due libri nell’edizione in mio possesso; in secundo, gli spazi in cui posso dedicarmi alla lettura non sono poi così tanti nell’arco della giornata – ma ne è valsa davvero la pena.

Innanzitutto, ho dovuto cedere di fronte all’inequivocabile bellezza puramente stilistica del testo. È un susseguirsi di parole e immagini che non lasciano tregua, scorrono semplicemente le une dopo le altre come un fiume; e mi verrebbe da dire un fiume placido e maestoso, più che uno in piena, mai irruento e roboante, ma sempre grandemente pacato. Mi ha ricordato il lento e inesorabile scorrere del Danubio quando l’ho visto a Bratislava; e sebbene sia consapevole che molto fa l’opera del traduttore, e che ci siano casi di traduzioni italiane migliori delle originali (vedansi le poesie tradotte da Quasimodo), sono altrettanto convinto che questi casi siano quanto mai rari.

Uno dei pregiudizi che sono stato costretto a smantellare rapidamente è poi stato quello relativo all’interesse che avrebbe destato in me la lettura: consapevole di andare a leggere una storia di amori e tradimenti, la sentivo lontana dai miei gusti, noiosa e, in fin dei conti, frivola.

Mi sono trovato per contro immerso in una girandola pazzesca (di rado ne ho conosciute di così complicate) di personaggi ed eventi, dove il legame sentimentale tra Anna Karenina, il marito e l’amante di lei è sì parte fondamentale, ma non unico motore del testo. Innumerevoli i personaggi tratteggiati da Tolstoij, dai nobili ai ricchi borghesi, dagli artisti ai preti ortodossi, dai contadini alle donne di strada, dai comunisti ai conservatori, dai pensatori e filosofi ai servitori: nelle righe vergate dalla sua mano prende forma la Russia del suo tempo, una Russia zarista al crepuscolo della sua grandezza, dove già emergono distintamente problemi (distribuzione delle terre, ascesa del socialismo e delle sue correnti estremiste) che avrebbero messo in ginocchio la nazione, per rinnovarla completamente. Leggendo “Anna Karenina”, la Russia mi è sembrata la nostra Europa, non fosse che per il contesto e le situazioni economico-sociali, del tutto differenti, come afferma lo stesso Tolstoij, da quelle europee. A questo proposito, l’autore afferma, per bocca di uno dei personaggi di gran lunga più importanti del libro, Konstantìn Dmìtric Lèvin, che l’errore che si fa in Russia è di voler ragionare secondo i criteri europei, obbligando il popolo e la cultura a seguire modalità di sviluppo improponibili per il Paese; occorre trovare una soluzione russa ai problemi, non europea. Forse, in questa breve frase, ingenua se volete, stava la soluzione di molti problemi che avrebbero dilaniato la Russia da lì a non molto. “Anna Karenina” è scritto tra il 1875 e il 1876, e ciò che ne emana è la speranza di riforme sensate e illuminate che portino il Paese a livello europeo, ma non nel modo europeo. Da questo punto di vista, fa effetto un lungo dialogo tra Lèvin e un proprietario terriero conservatore. Lèvin è a mio avviso personaggio fortemente autobiografico, e sono convinto che ciò che afferma sia quasi sempre ciò che pensa l’autore; ma sebbene Lèvin sia un proprietario terriero progressista, a suo modo, e il suo interlocutore un ultraconservatore, emerge la visione comune che, in base alle leggi che abolirono la servitù della gleba senza però tener conto delle enormi conseguenze che ciò avrebbe comportato, tutte le aziende agricole russe siano in perdita, senza conoscere alcun modo per tirarsi fuori dal pantano. Esiste un’unica situazione che presenta conti in attivo, nel libro, ed è quella di un’azienda a conduzione familiare. Insomma, emerge con chiarezza una situazione che sta precipitando, e Tolstoij auspica sia per sé, sia per chi lavora le sue terre, leggi nuove e prettamente russe, che rilancino il Paese. Noi tutti sappiamo come andò in realtà; e quasi provavo pena per quelle speranze, così vive in “Anna Karenina”, e così definitivamente infrante di lì a poco più di quarant’anni.

Non mi soffermerò a lungo sulla vicenda di per sé, perché è mia opinione che la grandezza di un testo non derivi dalla trama, che magari molti dei lettori già conoscono attraverso la lettura diretta dell’opera o la visione della pièce teatrale o della versione cinematografica ad essa relative. Credo che la grandezza di un libro derivi dalle sensazioni che suscita in chi legge; e in questo Tolstoij è maestro. Sebbene la trama non sia “avvincente” in senso stretto (ho letto molti romanzi attuali ben più avvincenti, dalla cui lettura non riuscivo a schiodarmi), non si può non riconoscere che è vasta e perfettamente delineata. Nell’insieme, risulta molto gradevole e tocca una quantità di argomenti ancora attuali, che fanno riflettere il lettore.

Tolstoij doveva essere un uomo incredibilmente colto, a giudicare dalle innumerevoli questioni che si dimostra in grado di analizzare nel corso della vicenda: questioni filosofiche, artistiche, economiche e religiose, ma anche realtà quotidiane, dominate dal buon senso, dall’amore per chi ci sta attorno e dalle contraddizioni della società in cui tutti noi ci muoviamo.

Doveva essere un osservatore eccezionale: mi ha colpito in maniera fortissima il modo in cui riesce a descrivere scene di vita femminile e a gestire lunghi dialoghi tra donne, come se fosse una donna egli stesso, provasse gli stessi sentimenti, e vedesse il mondo nello stesso modo. E, si sa, il modo di percepire le cose e vivere proprio delle donne non è quello degli uomini. Eppure, altrettanto perfetti erano i dialoghi tra uomini, le incomprensioni nei rapporti, dovute a qualche parola di troppo o a qualcuna non detta nel momento giusto. Vedere come l’autore si facesse entità esterna sia agli uomini che alle donne, per poter osservare entrambi col giusto distacco, e al contempo si insinuasse con forza nella loro vita, per poterli cogliere nella loro realtà più intima, mi ha fatto pensare che Tolstoij è davvero uno Scrittore, con l’iniziale maiuscola. Perché non c’è grandezza maggiore, per chi scrive, di riuscire ad abbandonare i propri giudizi e il proprio modo di vedere le cose, per incarnarne altri, magari diversi e completamente in conflitto con i primi, e sostenerli con il medesimo fervore.

Non si può poi parlare di “Anna Karenina” senza toccare l’ambito amoroso. Direi che dal libro emergono diversi modi di amare le altre persone, e soprattutto nella coppia. Quello di Anna e quello di Lèvin sono messi quasi a confronto, ed evolvono in parallelo, l’uno perdente e insensato, l’altro semplice e mite, e per questo vincente. I due personaggi non incrociano le proprie vie se non in rare occasioni, perciò si può dire che la trama ha in loro i due fuochi dell’ellisse, con loro evolve e intorno a loro si snoda. Ma per comprendere meglio le innumerevoli sfaccettature dell’amore descritto da Tolstoij si può soltanto ricorrere alla lettura diretta dell’opera.

Concludo evidenziando un aspetto a mio avviso molto importante per l’autore, e cioè quello religioso. Se già conoscevo la vicenda come una serie di situazioni amorose, non ero assolutamente preparato a trovarvi una lunga, dettagliata e umile analisi dell’aspetto religioso. Basti pensare che, paradossalmente e in barba al titolo, la vicenda di Anna Karenina e del suo amore dilaniato si conclude con la parte settima dell’opera; l’ottava ed ultima parte è interamente dedicata a Konstantìn Lèvin e al suo cammino spirituale, che lo porterà infine ad approdare alla serenità d’animo a seguito di un lungo periodo di turbamento interiore. Il protagonista troverà la risposta ai propri quesiti smettendo di guardare alle cose in maniera complicata, senza più seguire il corso di elucubrazioni filosofiche che si rincorrono la coda e non lo soddisfano mai del tutto; solo facendo spazio all’umiltà e guardando alla semplicità della vita contadina giungerà a placare il proprio spirito assetato. Segno che, forse, nell’affrontare molti problemi lo sguardo è così offuscato dalle strutture del nostro modo di pensare che ci rende impossibile discernere ciò che si delinea all’orizzonte, impedendoci di interpretarlo nel modo corretto; e mi sembra che tutti gli uomini, di ogni luogo e di ogni tempo, non possano sentirsi del tutto immuni alla critica che Tolstoij vuole muovere a tutti noi, e al richiamo all’umiltà che, di fronte a tante speranze infrante nel corso della trama, costituisce il grido finale di vittoria di Konstantìn Dmìtric Lèvin.

domenica 27 settembre 2009

Scapigliamoci!

Alessio Mazzucco

E se entravo titubante dagli alti portali di Palazzo Reale nella scapigliatissima mostra che Milano è lieta di offrire, colpevole sì di lacune sull’ottocentesco movimento artistico quanto della mancanza mia peculiare d’intendere le sfumature e i particolari più piccoli, ne sono uscito sorridente e pensoso dei mille spunti di riflessione che il percorso artistico mi ha donato.

Dunque la Scapigliatura: inquadramento storico. Sviluppatosi tra gli anni Sessanta e Novanta del XIX secolo, tra gli idilliaci luoghi lombardi delle campagne e dei laghi, mete tutt’ora agognate dal cittadino milanese, e la scuola artistica di Brera, il movimento è battezzato da Cletto Arrighi con il libro La Scapigliatura ed il 6 febbraio. Definire un uomo, un giovane, uno scapigliato era definirlo bohemién, figlio di quella tradizione tutta parigina degli outsider, gli emarginati sociali.

Ribellione, disgusto e rivolta ad una società borghese e ipocrita, dimentica già di quei valori e ideali che fino a pochi anni prima avevano infiammato il cuore di patrioti e martiri. Siamo in una nuova Italia, anzi, nell’unica vera Italia, unita dopo lotte decennali, ansiosa d’affacciarsi nel mondo come potenza politica ed economica. E di fronte alle novità politiche, ecco emergere le novità sociali della borghesia, il positivismo, l’amore per la scienza e il progresso. Il Risorgimento è superato, perduto forse nell’amalgama silente in cui gli ideali furono destinati a morire.

Gli Scapigliati non ci stanno. E con pennellate irrazionali, contorni vaghi, figure sfumate, a volte immerse nella luce e nella natura a confondere i tratti, ecco che i nuovi artisti di Brera cercano una loro personale soluzione alla visione nel mondo. Si abbandonano le pose classiche nei ritratti per far spazio a indagini psicologiche, nessuna rigidità, ma movimento dato dal pennello, allegria data dalla luce, grazia dall’ambiente in cui l’uomo si ritrova come soggetto cardine del quadro. Si lascia spazio ai sentimenti umani: la passione, l’amore fraterno o passionale, la dolce culla della lettura, del silenzio, dell’attesa e dell’ammirazione per la bellezza che d’intorno ci circonda, l’innocenza infantile.

Forse perché passando di stanza in stanza si viene letteralmente “assaliti” dalle foghe giovanili degli artisti, forse perché semplicemente l’animo mio già si posava sulle domande più diverse, ma uscire da quella mostra senza un pensiero, una riflessione, è stato pressoché impossibile. Su cosa? Dall’amore alla natura, dalla gioia di momenti estatici alle figure ritratte. Forse anche all’Italia dei giorni nostri, a quell’Italia che a 150 anni dall’Unità già non si sente più una ma plurima, per cantare poi gli inni nazionali a soli due minuti prima del calcio d’inizio. Forse alla nostra società, deturpata dalla cultura dei media e dei messaggi pubblicitari, degli slogan e dei luoghi comuni. Meno di 150 anni fa un gruppo di artisti lottava contro la “borghesizzazione” del nostro Paese; ora siamo giunti allo stadio successivo, alla classe omogeneizzata di una società assalita da nuovi, oscuri e, purtroppo, silenti nemici.

Scapigliato, al giorno d’oggi, credo non significhi solo essere bohemién, “alternativo” al pensiero borghese, ma reputo meriti qualcosa di più. Io lo definirei pensiero autonomo, slegato dalle influenze delle mode del momento e degli ambienti, lo definirei lotta all’omogeneità, ricerca della diversità, volontà di esprimere ancora i sentimenti più semplici e le gioie più comuni per elevarsi, poi, ai pensieri più alti. Chissà: magari un po’ di Scapigliatura, al giorno d’oggi, gioverebbe un po’.







martedì 2 giugno 2009

Futurismi vecchi e nuovi

Tommaso Giommoni

“Zang Tump Tump”, suoni bislacchi in piazza Duomo: così inizia “Futurismo 1909-2009” la mostra sull’avanguardia milanese in scena a palazzo reale fino al 6 giugno. E’ un percorso intenso, ludico a tratti, creativo di una creatività coinvolgente.

Il visitatore si trova gettato in un mondo surreale e bizzarro sin dall’ingresso nella corte del palazzo; qui enormi altoparlanti dal sapore vagamente retrò, producono una musica alienante ma coinvolgente, una musica “Futurista”.

La mostra si articola secondo un percorso cronologico che, dal prodromo figurativo arriva all’avanguardia vera e propria, quella degli albori coloniali del suo fondatore (Marinetti è nato ad Alessandria d'Egitto), fino a percorrere l‘iter dell’agguerrito gruppo.

Il contesto culturale in cui il movimento (ossia i suoi fondatori) si sviluppa è quello del caleidoscopico mondo post-impressionista. Da una parte chi ne ha ripreso le fila e, galvanizzato da vapori positivisti, ha dato vita ad un’espressione pittorica fondata sull’illusione ottica (il puntinismo); dall’altra chi, nel rifiuto della pittura come rappresentazione di un’impressione, ha cercato “foreste di simboli” nel reale, ha cercato di ritrarre il senso ultimo, mistico che la realtà custodisce (il simbolismo); ed infine chi ha concepito la pittura come vettore di ideali sociali (Pellizza Da Volpedo con il suo quarto stato).

L’inizio della mostra è enigmatico, diversivo; un antipasto figurativo in cui troviamo le avanguardie milanesi del tempo. Si va dallo scapigliato Medardo Rosso (“Noi siamo degli schizzi di luce, la materia non esiste”[1]) con le sue “morbide” sculture di cera, a Gaetano Previati con “La maternità”, divisionista, a tratti simbolista. Poi l’inizio tanto atteso.

La prima sezione è dedicata agli albori dell’avaguardia, dal manifesto, alle prime opere. Il gruppo, sorto intorno alle stravaganze del letterato Filippo Tommaso Marinetti, esalta il progresso, la velocità, ciò che, nuovo, possa spazzare via tutto quello che è stato, e l’attitudine a riproporlo (il “Passatismo” come lo definì Marinetti).

Anni 10, siamo in quella fase del Futurismo definita “Divisionismo plastico”: la realtà risulta frammentata in un vortice puntinista che, smanioso di riprodurre il movimento in quanto tale, viene sezionata in più piani e frantumata; in tale fase, fortemente influenzata dal cubismo (a là Braque ed a là Picasso), spiccano pittori quali Boccioni, vero profeta del dinamismo[2], Balla, con i suoi tentativi “tecnici” di dipingere una donna che porta a passeggio un cagnolino[3] e Severini.

La mostra prosegue con i fasti degli anni 20, l’arte “Meccanica”; l’avanguardia milanese si spinge all’esaltazione, “decadente” quanto aulica, della macchina. Tale fase, resa ancor più ambigua dalla vicinanza con il regime del duce, produce opere “spigolose”, intense, a tratti “metafisiche”[4]. Una lettura ingenua di un futuro anelato composta da ritmi meccanici ed automi.

Anni 30: l’esuberanza primigenia lascia, in parte, spazio al sognante. Siamo nella fase dell’ ”Aeropittura”in cui Dottori stupisce con i suoi paesaggi aerei, la macchina lascia spazio ad altro ma si fa strumento indispensabile, complice, per l’artista[5].

Infine la mostra presenta quelli che sono stati gli sviluppi, durante e dopo, il Futurismo. Si va dall’arte polimaterica in cui scorgiamo i sacchi di Burri, alle ultime interpretazioni del dinamismo materico.

Il Futurismo è un’avanguardia eclettica, attraversata da uno spirito forte, vorace nella sua volontà panica. Un desiderio insaziabile fino ad arrivare, talvolta, alla contraddizione.


“Abbiate fiducia nel progresso: ha sempre ragione anche quando ha torto”.


Amava dire Marinetti.


domenica 31 maggio 2009

Fact or Fiction


Vincenzo Scrutinio (con la gentile collaborazione di Alessandra Marra)

“Tali dunque si sono presentati alle mie ricerche gli antichi avvenimenti ma sono tali da rendere difficile il prestar fede a un qualunque indizio su di loro, così come viene ... così faticosa è per i più la ricerca della verità e a tal punto che i più si volgono di preferenza verso ciò che è a portata di mano”

Tucidide, La Guerra del Peloponneso (cap 20)


Quando il romanzo si confonde con la storia…

Alcuni giorni fa è uscito nelle sale cinematografiche “Angeli e Demoni”, basato sull’omonimo romanzo di Dan Brown. Dati gli argomenti trattati, il film ha scatenato la reazione di parte di alcuni sacerdoti che sono quasi arrivati a sporgere querela.

Questo, tuttavia, non è nulla rispetto al dibattito provocato dal ben più controverso “Codice da Vinci”, quando alcune tesi esposte nel romanzo vennero elevate a verità storica. Fortunatamente una parte del mondo accademico ha puntato il dito contro numerose inesattezze storiche presenti nel libro (oltre all’accusa di plagio da parte di Maichel Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, autori del libro Il Santo Graal nel 1982, in cui sono esposte molte delle tesi presentate nel Codice).

Sembra tuttavia che non fosse intenzione dell’autore sollevare un simile vespaio. Dan Brown afferma, infatti, nella prima pagina del romanzo, che la trama è frutto di fantasia, ma trovatosi sotto i riflettori non sembra abbia fatto molto per sconfessare l’uso che si stava facendo della sua opera. In un mondo così affamato di trascendenza e mistero le tesi di Brown sono state accolte come fossero manna dal cielo, nonostante le numerosissime incongruenze storiche.

Qualche svista …

Prendiamo un punto saliente del film da un punto di vista storico. Langdon va a casa del suo amico Sir Leigh Teabing, per raccogliere alcune informazioni sul Santo Graal. A questo punto lo studioso si lancia in una curiosa ricostruzione storica. Un oggetto sarebbe stato ritrovato dal braccio armato del Priorato di Sion (addirittura i Templari!) a Gerusalemme subito dopo la conquista della città da parte di un re francese. Tramite esso i templari avrebbero ricattato la Chiesa di Roma, accumulando enormi ricchezze e potere prima di essere arrestati e trucidati la notte del 14 ottobre del 1307. Direi che possiamo fermarci qui e discuterne.

In primis la città di Gerusalemme non fu conquistata da un re ma da due baroni, il conte Raimondo di Saint Gilles e Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lotaringia, che ringraziano entrambi per la promozione sul campo. In secondo luogo i Templari non esistevano ancora nel 1099, anno della conquista. A seconda della datazione usata si colloca la loro effettiva fondazione nel 1118/1119 mentre il riconoscimento ufficiale arrivò solo 9 anni dopo, in occasione del concilio di Troyes del 1128. In seguito, circa una decina di anni dopo, iniziarono ad avere numerosi benefici per l’appoggio dato ad Innocenzo II contro Anacleto II, proclamatosi anche lui papa (succedeva abbastanza spesso, non crediate …(-:) e per il loro impegno in Terrasanta (si può far riferimento alle bolle “Omne Datum Optimum”, “Milites Dei” e “Militia Christi”).

A seguito della sconfitta di Ruad e della presa del loro ultimo avamposto nel 1293 (Acri era stata nel 1291) si ritirarono in occidente dove si concentrarono sulla gestione delle loro numerosissime ricchezze e proprietà in attesa di tempi migliori. Questi tempi, però, non arrivarono mai. Nel 1307 su ordine di Filippo IV il Bello, re di Francia, vennero arrestati con varie accuse riassunte nelle varie bolle “Faciens Misericorda”.

Nonostante il papa fosse effettivamente con le mani legate (era il periodo della cattività avignonese…) si scatenò una battaglia giudiziaria che si concluse solo sette anni più tardi con lo scioglimento dell’ordine con la bolla “Vox in Excelso” (1312) e la condanna al rogo di Geoffrey de Charney e Jacques de Molay, allora Gran Maestro, con l’accusa di eretici relapsi.

Penso che Barbara Frale sia quasi svenuta alla notizia che avevano cancellato dalla storia più o meno tutta la sua produzione scientifica ( per giunta di altissimo livello…)!

Avviso ai naviganti

Come si può ben vedere gli errori non mancano … ed in più o meno cinque minuti se ne possono trovare una discreta quantità. Per tale motivo invito coloro che si apprestano a vedere il film e tutte le opere di questo genere a fare molta attenzione a prendere per buone le affermazioni che vengono fatte. La riflessione in questi casi non è un valore a sé e, se non viene affiancata da un’accurata ricerca e documentazione, porta a effetti opposti rispetto a quelli sperati. Per il resto questi romanzi restano delle belle storie ma, tranne pochi illuminati, nulla più.

giovedì 7 maggio 2009

Questo Non E' Un Caffé

Tommaso Giommoni

disegno di Omar Abdel Wahab

La realtà è come appare, la realtà è come è percepita, la realtà è come qualcuno vorrebbe che fosse. In realtà la realtà (e qui la ripetizione è d’obbligo) è un concetto troppo complesso da saggiare. Quello che possiamo notare è però una certa ironia nel reale; una virtualità che rende tutto più evanescente.

L’intero sistema sta lentamente scivolando verso derive sempre meno consistenti; e ciò che materialmente sentiamo sta diventando sempre più simile a ciò che virtualmente percepiamo. Una comunicazione smodata ed infinitamente veloce, l’oggetto che viene rimpiazzato con la sua immagine. Sono tutti esempi di un’incipiente sovrastrutturarsi di ciò che ci sta intorno.
Una realtà così sbilenca e sfibrata si avvicina parecchio a quel “mostro” descritto dal belga Magritte.

“Questa non è una pipa” tuonava l’artista quando nella tela raffigurava meticolosamente proprio quell’oggetto. Il pittore aveva intuito l’inesorabile processo e si era deciso a rappresentarlo con quel suo stile sobrio, ironico e giocoso. Nelle sue tele il rappresentato prende commiato dal rappresentante; ci troviamo spettatori spaesati di una recita illogica.

L’artista sapeva che quell’oggetto di legno era così chiamato. Sapeva tuttavia come quelle quattro lettere fossero una pura convenzione: l’uomo tenta di proteggersi da una realtà inconoscibile appiccicandovi etichette e finisce col cadere nell’inganno da lui stesso creato. E che inganno! La presa in giro è duplice: Magritte si burla di chi lo guarda, gettandolo impietosamente in uno stato di confusione; ma allo steso modo carica di autoironia le sue tele quando ci si rivolge con quel sorriso sornione. È così che l’artista conia uno stile unico e nel farlo è rivolto sovente al passato: è metafisico quando si impegna a rendere spaesato il suo pubblico, è profondamente cubista quando polverizza e defrauda della logica la realtà, è simbolista quando si fa buio e misterioso.

Se conoscere è interpretare (come in parte credo) Magritte ha sicuramente il merito di aver anticipato un processo che oggi si fa più forte che mai; noi ci sciogliamo, perdiamo consistenza mentre la nostra immagine svetta, monade si erge su di noi. E l’uomo, ormai alla deriva in quanto nemmeno più consolato dal dono della beata ignoranza, non può che accettare e trovare il solo porto franco in un placido stato di ammirazione di quel mistero semantico che ogni volta si ripresenta.”Così è, se vi pare” sembra dirci l’artista.